Chi
è Corinnah Kroft
Siamo[1] in un piccolo bilocale di una brick house,
una di quelle case di mattoni della vecchia New York sopravvissuta ai
grattacieli - non si sa come - sulla
Loisaida Avenue, detta anche Avenue C.
Vive
qui: è molto giovane e fa la giornalista finanziaria[2]. Sta scalando la Grande Mela con molte
difficoltà, molta caparbietà ma anche molto successo.
Ha
fatto di tutto, anche la modella per delle mutandine che nascondevano davvero
poco: a quindici anni era considerata il più bel sedere degli Satti Uniti;
però, si sa, a diciassette anni il sedere è ancora un meraviglioso sedere ma non
va già più bene per comparire su cartelloni di dieci metri per sette in Madison
Square.
Corinnah
mi sta guardando tranquilla con le lunghe gambe accavallate che spuntano da
sotto una minigonna mozzafiato. Somiglia a Charlotte Gainsbourgh.
Fuori,
smorzato dai doppi vetri, il traffico di New York - la città che mai dorme
- mormora inarrestabile.
Generalità?
Mi chiamo Corinnah Kroft. Sono
nata 25 anni fa al numero 25 di Wall Street, in un sottoscala. Ero sottopeso.
Avevo un’aspettativa di vita di sei giorni.
Nonostante la falsa partenza, è
cresciuta bene…
A quel che si dice… (ride) coi miei capelli neri come le penne
di un corvo, i miei occhi neri che – si dice – luccicano nella notte, e le mie
lunghe gambe…
… non dimentichiamo il sedere…
…ma io per la verità non credo di essere un granché.
Un compagno, un fidanzato?
Vivo sola e tento di tirare avanti senza mai toccare l’eredità che mi
ha lasciato mio nonno, poco meno di 30.000 dollari. Qualunque cosa faccia, il
mio conto in banca non deve mai scendere al di sotto di quella cifra.
Tirare avanti?
Tra affitto e bollette e tutto il resto, non è facile.
Questo forse agli inizi. Lei
oggi guadagna molto, specie come trader. Siamo andati a vedere sul sito
dell’Internal Revenue Service.
Come si dice: New York è la migliore città al mondo per lavorarci ma non
puoi permetterti di viverci.
Come è cominciato?
Giornalista praticante al Journal – inizialmente senza un grande
successo per la verità. Dato il luogo della mia nascita, mi hanno assegnato il
compito di intervistare i grandi trader per farmi rivelare le loro scoperte. Mi
hanno detto che dovevo farmi rivelare, oltre a come si fa a guadagnare, anche
come si fa a non perdere in borsa, specie durante i crash, perché già non
perdere per il common Joe sarebbe un passo avanti. “Cose semplici, mi
raccomando” hanno detto, “alla portata di tutti”. “Niente di tutte quelle
stronzate che raccontano economisti e giornalisti in televisione per riempirsi
la bocca che poi non ci azzeccano mai”.
E lei?
Ho fatto presente che nascere in un sottoscala di Wall Street con la
finanza non c’entra nulla, che poi il NYSE, cioè il New York Stock Exchange, la
grande Borsa americana, quella con la B maiuscola, è al numero 11 di Wall
Street, non al 25 dove sono nata io e dove mamma ha fatto la doorwoman,
ossia la portinaia, fino a che è campata; ma loro hanno detto che la finanza
dovevo comunque avercela nel sangue e mi hanno invitato a muovere il culo.
E come nasce questa passione per
raccontare delle storie?
Credo sia un desiderio innato, fino dalla notte dei tempi, quando i
vecchi raccontava miti e leggende attorno al fuoco.
Ma le sue storie sono… diciamo così:
un po’ scollacciate.
Confronto a quello che le ragazzine postano sul Web, direi che sono da
educande. In realtà sto tentando di scrivere in maniera eccitante senza essere
noiosa. I libri di sesso esplicito dopo dieci pagine li chiudi perché ti
annoiano. Lo dice anche Vargas Llosa.
Cita i premi Nobel, adesso?
Gliel'ho detto: voglio fare letteratura, non blah blah. Come tutto quel
che faccio, tento di farlo professionalmente, di livello. A volte ci riesco, a
volte no.
Leggiamoci questi racconti,
allora.
Ha un occhio più piccolo, ironico
Ha un occhio più piccolo, ironico.
Ti guarda solo con quello. L’altro vagola senza meta.
“Sarebbe un archivista” dico io.
Lei si accende di nuovo la
sigaretta, perché si è spenta.
“Lo so che non si può” fa: “fumare
in ufficio, intendo. Ma me ne frego”. L’occhio buono vagola per la stanza. “Giusto?”
aggiunge.
Fuori la Porta Ticinese è inondata
di bandiere con la falce e il martello. Ragazzi come me, incazzati. “Però non
cantano Bandiera Rossa!” ha detto uno
anziano. L’ho sentito mentre passavo e l’ho guardato. E’ brutto il cranio di un
anziano quando ci sono rimasti sopra solo pochi peli isolati. Ti danno l’idea
della dissoluzione. Non manca tanto. “Lei si farà cremare?” gli ho detto. Poi
la marea delle bandiere con la falce e il martello ci ha separati.
“Sarebbe un archivista” ripeto.
Giovanna Mascherpa, che sarebbe il
mio editore, ha qualcosa da pensare che la interessa di più del mio
personaggio. Il mio primo libro ha venduto solo tremila copie: “Una vera merda”
ha detto Giovanna. “Non so se ti pubblico il secondo” ha detto. “Cerca di
convincermi” ha aggiunto mentre l’occhio più piccolo diventava ancor più
ironico.
“Un archivista non è un personaggio
memorabile” mi dice ora.
“Se però di notte compone la più
bella musica dopo quella di Battisti…” dico io. Ci sono dentro tre anni di
lavoro a pane e cipolle, penso.
“Trova di meglio” dice Giovanna.
Eccola finalmente: dalle finestre
aperte sul giugno di Milano Bandiera
Rossa sale al cielo e si fa strada, lucida i vetri delle finestre, taglia
lo smog che vorrebbe soffocare anche lei oltre ai cristiani, come dire che la
speranza si fa strada anche in mezzo ai rifiuti, quando sembra abbia ormai perso
per sempre la partita.
“Se mi dice di no mi suicido” avevo
pensato nel cortile settecentesco, prima di pigiare il bottone del
videocitofono. E ora lei non era per niente interessata a me, era evidente.
Con Caterina detta Cate ci eravamo
incontrati in un bar. Quelle cose che ti prendono e non sai perché. “Troppo
giovane ‘sta ragazza” avevo pensato, ma la sera stessa eravamo a letto. Non lo
avevo mai fatto con una donna. Era stato il sedere della Caterina che mi aveva
fatto decidere. Anzi: non avevo deciso un bel niente. Ero uscita dal bar e lei
dietro che non si stava zitta un momento ed è entrata in casa mia come se lo
avessimo deciso e poi il suo sedere era davvero bello come me lo ero immaginato
al di sotto dei jeans, bellissimo.
“Sai” mi scappa detto: “Cate è una
ragazzina; se non la faccio io, la spesa, non mangiamo”.
La Giovanna Mascherpa finalmente mi
guarda anche con l’occhio buono. “Chi sarebbe ‘sta Cate?” fa.
“Lascia perdere” dico io e penso a
quant'è bello il suo sedere e che stasera la bacio lì, in mezzo alle natiche.
Bandiera
Rossa si allontana sempre più flebile su per il Corso di Porta Ticinese.
L’anziano con pochi capelli isolati sul cranio starà scrollando la testa, le
mani dietro la schiena.
“Davvero non ti piace” dico “la
storia dell’archivista che compone meglio di Battisti e che nessuno lo caga?”.
“Sembra Cechov” fa lei. “Oggi la
gente vuole robe misteriose e un po’ blasfeme tipo la Maria Maddalena che si
scopa Gesù Cristo e tutta la Chiesa insorge e fa un sacco di pubblicità
negativa che fa vendere di più di quella positiva. Salman Rushdie non avrebbe
venduto un cazzo se non avesse dovuto vivere sotto protezione. Anche Saviano. È
così che si fanno i bestseller oggi. Chi vuoi che lo legga l’Ulisse?”.
“Ma l’archivista non riuscirà mai a
pubblicare la sua musica” faccio io “perché non ha mai preso la tessera del PD
né di tutta quell'altra merda e però scopre un giorno i fossi che incidono i
fianchi delle colline che salgono su per la val Tidone, dove sono nata io, e l’odore
delle robinie scaldate dal sole e quello della terra appena rivoltata dai
trattori che ci cantano i grilli neri e le voci degli agricoltori che si
rincorrono su per i fianchi delle colline e che ci sono ancora le volpi che ti
osservano attente mentre passi e i cinghiali, ci sono, e c’è tutta quella vita,
quella vita, e allora lui… lui… lui è felice! Capisci? E’ felice!”.
La Giovanna guarda in giro con
l‘occhio buono. Non mi guarda più nemmeno con l’occhio piccolo. “Sembra Cechov”
fa. Agita il grande corpo mascolino nel tailleur verde sulla sedia troppo
piccola. “Cechov oggi non venderebbe un cazzo” fa.
Agita ancora il corpo e il suono è
inequivocabile, anche se subito non ci credo. Penso si tratti di qualcos'altro.
Comincia lento, per poi rafforzarsi con calma, quasi compiaciuto di sé, ma è
inequivocabile: è una scoreggia. Giovanna ha scoreggiato, e non fa nulla per
nasconderlo.
“Senti, vado” dico io.
Giovanna vaga per la stanza con
l’occhio buono. Quello fasullo è quasi chiuso. Non mi vede. Non mi sente. Non
sa neppure più chi io sia. “Non te la pubblico una roba alla Cechov” sta
dicendo mentre chiudo la porta.
“Com'è andata?” fa la Cate. Era
rimasta in Porta Ticinese. Mi aspettava. “Meglio che tu non sali” le avevo
detto.
“Corri che riprendiamo il corteo”
le dico. “Quelli con le bandiere” dico e la prendo per mano. Non è più grande
di quella di una bambina di dieci anni, quella mano – penso –, e adesso corriamo
così, ridendo. Adesso. “Corri” dico. “Corri” ripeto.
Io mi rendo conto di essere ossuta
e niente di speciale, lo so, così mentre corriamo le guardo il sedere tondo e mi
domando perché la Cate abbia voluto essere la mia ragazza: perché mai?
Bandiera
Rossa diventa sempre più forte mentre corriamo per raggiungere il corteo. Le
bandiere con la falce e il martello sbatacchiano sempre più energiche nel vento
che si è alzato da nord sopra Milano e che tra poco andrà a lambire i fianchi
delle mie colline, ai piedi della Val Tidone, facendo piegare le robinie sotto
cui ha trovato la pace l’archivista.
Nel vento, mentre corre, i capelli
dorati di Cate si agitano sul collo magro, e anche il ventre di Cate è dorato
quando ci affondo il viso, e Cate ha un buon odore, come la terra delle mie colline
e i grilli neri.
Osservo le sue guance che si stanno
colorando e ragiono che se siamo ancora così tanti a correre dietro alle nostre
bandiere con la falce e il martello che sbatacchiano nel vento e a cantare Bandiera Rossa, non c’è Berlusconi che
tenga: non possiamo che vincere noi. Non so quanto tempo ci vorrà, ma
vinceremo.
Afferro allora la Cate per la vita
e la faccio fermare, la faccio girare verso di me e la stringo forte. La
stringo forte per sentire il suo ventre dorato contro il mio che non è niente
di speciale, col triangolo color topo come tante altre. E allora, stringendola,
con Bandiera Rossa che incombe ormai sopra le nostre teste come un tuono minaccioso
ma pieno di speranza e di attesa, piango guardandola da vicino negli occhi, e
Cate capisce, Cate sorride, Cate risponde alla mia stretta, come se la nausea ora
fosse davvero terminata, finita, conclusa, per far posto a tutto il resto. Il
resto che ancora ci è ignoto.
Turi e gli Spaghetti del Molise
Il supermercato
mi deprime. Alla gente gli si ingiallisce la faccia con quelle luci senza
finestre: i neon e quella roba lì.
E quando passi
davanti ai salumi si crepa di freddo.
C’è sempre
l’odore che non è di lisoformio come all’ospedale e non è di marcio, ma è
sgradevole... io lo chiamo l’odore del supermercato.
La Gina mi dice
che ce l’ho nel naso quell’odore, che lei non lo sente.
La Gina lavora
davanti a me, alla scrivania una contro l’altra. D’ogni tanto alzo gli occhi e
le guardo il viso perché ha il viso bello con le luci e le ombre del computer
che le ballano fra il naso e gli zigomi e gli occhi neri da meridionale. Ha la
bocca rossa. Ha ventidue anni, la Gina, l’età che la carne a noi ragazze non ci
scoppia più da sotto la pelle come a sedici anni ma diventa morbida e docile.
Ieri sera il
tizio lo avevo notato perché passando col carrello davanti ai formaggi mi ha
toccato il fianco senza parere, come se fosse per coincidenza. Era già successo
e la Gina mi ha detto di non farci caso, che alle belle ragazze, specie se sono
giovani come me che ho diciotto anni e non uno di più, gli uomini lo fanno, di
toccare il fianco senza parere, che chissà cosa credono di fare. “Sono degli
insicuri” ha detto la Gina.
Io però, invece
di far finta di niente, questa volta l’ho guardato e “La vuoi finire?” gli ho
detto fermandomi col carrello proprio davanti all’offerta speciale, con la tipa
che ti offre un triangolino flaccido infilzato con uno stecchino e ride da un
orecchio all’altro che si vede che non gliene frega niente di te e che lo fa
solo perché è pagata per farlo. D’altra parte anch’io sono pagata per
verificare le bollette che non me ne frega niente; controllo che i numeri siano
uguali a quelli del borderò: sempre lo stesso per otto ore al giorno; “per
trentacinque anni” mi dico, e penso che vorrei morire.
“Sarebbe?” mi ha
detto lui scuotendo il capo voltato verso di me.
Ho pensato che
quel formaggio della tipa si sentiva di lì che era pecorino. Io lo conosco il
pecorino perché d’estate vado in Sardegna, e al mercatino del lunedì ci sono i
banchi sotto il sole che ti scortica e il grasso cola dalle forme che si sente
l’odore tipo a cinquanta metri.
“Io mi chiamo
Turi” ho detto io.
“Come Turiddu?”
ha detto lui.
“Non so” ho detto
io.
“E’ un nome da
maschio” ha detto lui.
“Ma perché mi
hai toccato il fianco?” faccio io.
“Dammi il
formaggio” ha detto lui alla tipa, e si è messo in bocca il triangolo flaccido
tirando via lo stecchino coi denti, così l’ho fatto anch’io. Ma non era
pecorino; non so che cos’era; dato che non era in frigorifero era molle e dava
la nausea a sentirselo sulla lingua.
“Dai, paghiamo
che usciamo” ha detto lui. “Qui non mi ci sento”.
Mentre pagava lo
guardavo, perché aveva i capelli biondi tagliati a spazzola che pareva uno
scopino. Doveva avere i muscoli forti sotto il giubbetto di pelle. Gli avevo
parlato proprio per via che doveva avere i muscoli forti. A me piacciono quelli
con i muscoli forti.
Avevo comperato
solo gli spaghetti del Molise, che sono quelli che per me sono i migliori, così
non ho preso il sacchetto col marchio del supermercato perché quello te lo
fanno pagare dieci centesimi o qualcosa del genere. La cassiera con le occhiaie
secondo me stava pensando anche lei: “per trentacinque anni questo schifo”, e
ancora: “vorrei morire”.
Sono uscita col
pacchetto degli spaghetti in mano che non so perché ma mi fa piacere di
soppesarlo perché pesa di più di quello che ti aspetteresti, lui però mi si è
buttato addosso.
“Sta fermo” gli
ho detto puntandogli le mani sul petto. “Sta fermo”.
Gli spaghetti
del Molise mi ingombravano.
Lui odorava di
saponetta.
Teneva le mani
incrociate dietro alla mia vita e proprio non riuscivo a staccarmi anche se
spingevo più che potevo. Avevamo la pancia incollata l’uno contro l’altra e
sentivo il suo rigonfio che in un altro momento non mi sarebbe nemmeno
dispiaciuto ma io lo spingevo via e tenevo la testa più indietro che potevo,
però non mi riusciva di liberarmi.
Il pacchetto
degli spaghetti del Molise è duro e pesante. Non avevo mai pensato che l’avrei
usato a quel modo: dritto nel suo occhio destro.
E’ andata così,
che io ho tolto dal suo petto la mano che teneva gli spaghetti per darglieli in
testa, ma lui è scattato col busto in avanti perché io da quella parte non lo
spingevo più, e così c’è finito dritto addosso con l’occhio destro, al
pacchetto degli spaghetti del Molise, e ha cominciato a saltare per via che
l’occhio gli faceva un gran male.
“Senti” gli ho detto: “Calmati che non è mica
niente. Sarà come quando ti ci va dentro della polvere chediamine”. “Sei uno
forte tu” gli ho detto.
Allora lui si è
calmato e si asciugava le lacrime. Allora io gli ho detto: “La faccio bene la
carbonara. E’ per quello che avevo preso gli spaghetti del Molise”.
Lui si asciugava
le lacrime che gli uscivano ancora dall’occhio destro, ma non saltellava più.
Guardava il fazzoletto, che non venisse fuori del sangue.
Quella lotta mi
aveva fatto venire tensione al basso ventre.
“Se vuoi la
faccio anche per te, la carbonara, stasera” gli ho detto e pensavo al rigonfio
che avevo sentito sulla pancia.
“Gli spaghetti
del Molise li abbiamo. Il resto ce l’ho in frigo” ho detto.
La Gina sostiene
che io sono una che non sa resistere a certe cose.
P. Pagani, Giove e Semele, 1780, Moravskà Galerie, Brno; scaricata da Google Images |
Gli Amanti di Lori
“Ci sono cose
che non sai” disse Lori. “Non le sai e basta” disse.
“Se mi dai da
mangiare è meglio” disse Mariotto. Si passò le dita fra i capelli, tipo
pettine, e si sedette a tavola. C’era aria di pioggia. Veniva su dalla
bialera, l’odore, e dopo veniva a
piovere. Mariotto non sbagliava.
“Quella volta
con Piero non te ne sei nemmeno accorto” disse Lori. “Dormivi al sole, tu”
disse. “E lui mi ha tirato in cabina”.
“Sta venendo da
piovere” disse Mariotto.
“Ha chiuso la
porta della cabina e mi ha tolto gli slip” disse Lori. “Il pezzo di sopra me lo
ha lasciato ma ero senza slip con tutto il pelo di fuori e tu dormivi al sole”
disse. “Tu non me l’hai mai fatto come me l’ha fatto il Piero. Mi ha dato il
tempo. Tutto il tempo di essere soddisfatta, lui; che ho gridato perfino. Nella cabina,
dopo il mare, nel caldo, che lì in basso tra le gambe ti scoppia dalla voglia”
disse.
Mariotto guardò
la padella. L’aglio era bruno e i broccoli appassivano. La cucina era piena di
odore e le linguine facevano schiuma mentre bollivano nell’acqua che quasi
traboccava. Mariotto pensò che la lampadina faceva poca luce e che tutto era
infelice in quella cucina e che avrebbe dovuto cambiare la lampadina. “Sei
stata al laboratorio?” chiese.
“Solo quello ti
interessa” disse Lori.
“Ci sei stata?”
disse Mariotto. “Ti ha accompagnata mio fratello?” disse.
“Devono cambiare
un pezzo” disse Lori. “Non aderisce più e fa male” disse.
“Mmm” fece Mariotto.
“E non è mica
stato l’unico, Piero” disse Lori assaggiando una linguina con la forchetta in
punta di denti e lasciandone poi ricadere un pezzo nell’acqua. “Un ragazzo,
era. Niente più che un ragazzo quell’altra volta, che mentre mi stringeva mi
veniva di carezzargli i capelli come a un bambino. E mi sentivo di farlo soddisfare
lui, da tanto era giovane, pensavo che io non ci sarei riuscita, ma poi di
colpo mi sono soddisfatta anch’io che non è mai stato così bello da quanto ce
l’aveva grosso anche se era un ragazzo” disse.
“E questo come
si chiamava?” disse Mariotto.
“Non me l’ha
detto” disse Lori versando le linguine nel colapasta. “Aveva i ricci e la pelle
che gli sapeva di cuoio” disse. “E ce l’aveva grosso che me la riempiva tutta e io
mi ero bagnata come una mula. Ci aveva la pelle d’oro e il segno bianco del
costume sulle natiche strette e lisce che mentre mi faceva io gliele stringevo
con le unghie, le natiche” disse.
“Attenta che ti
bruci” disse Mariotto.
Lori rovesciò le
linguine nella padella. L’olio sfrigolò e schizzò.
“Cosa ti hanno
detto al laboratorio?” disse Mariotto.
“Cosa vuoi che
dicano?” disse Lori.
Il piatto
fumava. Fra il bianco delle linguine c’erano i pezzi verdi dei broccoli e
l’aglio imbrunito. “I broccoli quando li friggi” pensò Mariotto “diventano di
quel colore che sembra il verderame che là fuori diamo alle viti”. “Domani devo
andare a Genova” disse. “La faccenda del notaio” disse. “Tanto qui la vendemmia
l’abbiamo fatta. C’e solo da portare l’uva al Cantinone. Lo farà mio fratello”
disse arrotolando le linguine sulla forchetta.
Fuori i grilli
delle colline facevano un frastuono che lo sentivi da Milano, pensò Mariotto, e
sopra c’era solo il nero del cielo perforato di brillanti. I cani andavano in
giro per i fossi silenziosi e si accoppiavano se potevano, sennò si
odoravano e basta.
“Sono venute
bene, le linguine?” disse Lori.
“Che disdetta
Lori” disse Mariotto. “Avresti potuto essere più fortunata, e anche più felice”
disse.
“Forse ci ho
messo poco sale” disse Lori.
“Una
poliomielite a otto anni” disse Mariotto. “Non è una disdetta?” disse.
“Bloccata su una sedia dall’età di otto anni su queste colline che ci sono solo
i grilli e le viti e i cani” disse.
“Piero quella
volta che tu dormivi mi ha attaccata alla parete della cabina, mi ha allargato
le gambe e le braccia, e poi mi ci ha inchiodata, alla parete, non so se capisci,
in croce tipo: mi ci ha inchiodata nel caldo e nel rumore dei bagni e nella
voglia che ci avevamo tutti e due” disse.
“Bloccata su una
sedia dall’età di otto anni” disse Mariotto arrotolando le linguine. “Che
peccato”.
Carl Larsson, Kersti with a Breadbasket - Fonte: Google Images |
Tre Marie
“Il puzzone di
Moena, forse ti piace” le dissi.
Mi guardò
appena. Aveva gli occhi turchini dei bambini nati a fatica che poi magari, gli
occhi, diventano tabacco o gialli o cupi, va a sapere perché. Era come se non
volesse guardarmi. “E’ un formaggio forte?” disse, ma sembrava che parlasse a
chi era intorno invece che a me. “Perché mi piacciono i formaggi dolci” disse.
“Puzza un po’”
dissi. “Sa di formaggio” dissi. “Ma è amaro come l’erba di montagna” aggiunsi.
Quando era morto
mio padre avevamo riempito gli armadi di naftalina e poi avevamo chiuso la
stanza, e ora quando passavo davanti alla porta chiusa per sempre, filtrava da
sotto l’odore della naftalina.
“Io me la
ricordo Moena” dissi. “Incontravo tutti i giorni una ragazzina con le guance scarlatte
che si chiamava Maria. Avevamo la stessa età. Forse lei aveva un anno meno. E
aveva i capelli a riccioli ma non le ho mai parlato e quando siamo andati via
lei era in piazza e mentre la corriera si avviava mi ha salutato con la mano e
un sorriso. Non avevo idea di come si facesse a fare l’amore. Non l’ho mai più
vista però” dissi. “A volte fantastico che la incontro di nuovo” dissi. “Mi ci
immagino le mutandine bianche sulle coscette”.
“Anch’io mi
chiamo Maria” disse lei. Non riuscivo a staccarle lo sguardo dal petto. Pareva
consumato come gli strofinacci da cucina.
“Hai dei figli?”
le dissi.
“Due” disse lei.
“Sono all’asilo” disse. “Li accompagno tutte le mattine e li vado a prendere al
pomeriggio” disse.
Nel supermercato
nuovo, la gente girava anche solo per curiosare. Sentii una che diceva: “La
Coop è meglio del Basko” e l’altra che rispondeva: “I prezzi sono migliori”.
Stava tuonando
nero sul Monte Fasce; pensai che i fulmini si sarebbero andati a ficcare in
mare al largo di Genova.
Erano stati i
suoi fianchi che mi avevano preso, larghi e duri, di una donna che ha figliato
ma che non si è gonfiata come un chewing gum; e aveva il ventre piatto nei
calzoni beige-topo elasticizzati. Era come se gliela vedessi attraverso i
calzoni, come se gliela vedessi. Sapevo esattamente com’era, sotto ai calzoni,
e ne sapevo l’odore. Lo sapevo, dico.
Non ne aveva di
cellulite. Gli occhi sembrava che mi domandassero.
“Sai: non vorrei
che pensassi che lo faccio sempre” le dissi. “Non l’ho mai fatto di attaccare così
come sto facendo con te” dissi. “Non so perché mi è venuto di farlo” dissi.
Solo allora mi
guardò franca negli occhi finalmente: “Da ragazza ero bella” disse.
“Senti” dissi,
“è l’ora giusta. Al piano di sopra ci hanno fatto anche il bar e sopra ancora
ci portano i cani a correre e noi ci mettiamo al bar e ci pigliamo un Crodino
con le olive nella tazzetta e gli stuzzicadenti per infilzarle o, che ne so:
prendiamo qualcosa di più alcoolico. Quant’è che non ti siedi con qualcuno e ti
prendi un aperitivo un po’ alcoolico?” dissi.
“E tu come ti
chiami?” disse.
“Maria, anch’io”
dissi.
“Le tre Marie,
come il panettone” disse. Non aveva ancora riso, ma aveva un bel riso, con la
bocca larga e bianca e le labbra spesse di carne.
“Sai” dissi,
“Due donne al supermercato quando parlano si dicono dei prodotti biologici che
sono una truffa di sicuro perché nessuno controlla, o che quella lozione
idratante costa meno ed è buona lo stesso perché queste creme costano più della
carne di vitella… insomma volevo che una volta tanto fosse una cosa diversa, e
tu hai dei fianchi che mi sono detta: be’ mi piacerebbe farlo con lei, anche se
non l’ho mai fatto con una donna, ma mi piacerebbe farlo con lei perché sento
già il suo odore. Questo mi sono detta”.
Era cominciato a
piovere su Genova. Si sentivano le gocce colpire la cupola di plastica
trasparente al centro del fabbricato e i rivoli scendere per le grondaie a
piombo e sgorgare sui cubetti di porfido e poi colare nei tombini tutto intorno
ai muri freschi di gettata.
Io sapevo a cosa
pensava. Aveva un marito con la barba ispida al mattino e l’odore sgradevole
del caffè nel fiato che si grattava in mezzo alle gambe e poi fra i capelli.
Non potevo sbagliare. Una volta a settimana le apriva le cosce e la inchiodava
lì in mezzo come se niente fosse e lei annaspava tentando di venire senza mai
riuscirci. Erano anni che non ci riusciva, a venire, così si faceva da sola, dopo, nel bagno.
“Sono i tuoi
fianchi che mi hanno preso” dissi. “Non ci voglio rinunciare” dissi, e mi
guardavo le Reebock ai piedi.
“Sei troppo
giovane per me” aveva detto lei.
Io continuavo a guardarmi le Reebock ai piedi.
Ora tuonava al
largo e pioveva, pioveva al largo sul mare, pioveva che sembrava che così non
avesse mai piovuto.
“Va bene” disse.
“L’hai detto davvero?”
feci io.
“Va bene” fece
lei, guardandomi con gli occhi turchini dei bambini nati a fatica.
Mi stava
guardando dritto negli occhi.
“Va bene”
ripeté, e c’era del batticuore nella sua voce.
Sergey Marshennikov - A grecian beauty - fonte: Google Images |
La Maria di Voltri
“Cosa fai?” dissi.
La Maria, quella della Rari Nantes Voltri,
quella che andava forte sui 50 metri stile libero, se ne stava seduta da sola
guardando fuori.
Il motore del pullman girava tondo che quasi
non si sentiva e quando si superava un’altra macchina sull’Aurelia si doveva
fare in fretta per via delle curve, così il movimento ti sballottava molle da
una parte all’altra che quasi ti si rivoltava lo stomaco.
“Perché stai da sola?” dissi.
“Mi viene come la malinconia d’ogni tanto “ disse
la Maria di Voltri.
“La malinconia ti verrà tra un po’ quando
ricominciano le scuole” dissi e mi sedetti vicino a lei cadendo di sedere con
un tonfo, tenendomi al sedile davanti.
“E’ che poi voi siete di Genova” disse la Maria,
“e a noi di Voltri ci considerate un po’ dei grebani”.
Ecco, quella parola, grebani, non
avrebbe dovuto dirla. “Solo i grebani dicono: grebani”, pensai.
“Sei andata forte sui 50” dissi.
“Abbastanza” fece la Maria. Aveva battuto il
record ligure.
“Questi di Nizza ci avevano detto che erano
delle schiappe” feci io, “ma invece ci hanno fatto vedere i sorci verdi”.
“Senti” disse la Maria di Voltri, “Io non
voglio che tu stai qui perché io ero sola. Io posso stare anche da sola che non
me ne importa mica niente”.
“Cos’hai lì?” dissi indicando un pacchetto
sopra la retina.
“Pane e salame” disse la Maria. “Me lo sono
fatto preparare a Nizza, con la baguette che a me mi piace” disse. “Perché lo
so che a un certo punto mi viene fame”
aggiunse.
“Buono” disse io. Pensavo che camminava sempre
diritta, la Maria, sul bordo della piscina, e aveva le più belle gambe che io
avessi mai visto, giuro, e portava un costume da nuoto così sottile che se lo
toccavi – pensavo – si doveva lacerare e lasciarla lì tutta nuda. La Maria. Era
della categoria ragazzi, forse l’ultimo anno, e anch’io ero all’ultimo anno
della categoria ragazzi. Di sera nel letto me la immaginavo che camminava tutta
nuda sempre diritta col triangolo del pube nero, ma un triangolo del pube
piccolo, non come quelli folti fino a metà pancia che si vedevano sulle riviste
francesi che ci passavano i ragazzi che non studiavano e che lavoravano in
porto.
“L’anno prossimo, che facciamo quattordici
anni, passiamo juniores e allora sì che sono cazzi” dissi.
La Maria scoppiò in una risata, alta, netta,
mai sentita; una risata che si voltò perfino l’autista.
Sul pullman si fece silenzio di colpo, e
c’era solo la sua risata che rimbombava da una parete all’altra, sui finestrini
spessi, sui sedili, sul soffitto bombato: una risata che se non ci stavi
attento ti prendeva e ti faceva ridere a crepapelle anche a te senza che ce ne
fosse davvero una ragione.
“Cosa ti prende?” dissi.
La Maria faceva fatica a fermarsi. Pensai che
aveva un sederino, ma un sederino, quando camminava sul bordo della piscina… anche
al suo sederino pensavo la sera nel letto. “Cosa ti prende?” ripetei.
“E’ che l’hai detto bene” fece la Maria: “Sono
cazzi, hai detto” e ricominciò a ridere che nessuno la fermava.
C’erano barche bianche che parevano ferme sul
blu del mare. Tra un po’ l’Aurelia sarebbe scesa verso l’Italia e Nizza, Monte
Carlo, e i posti dei ricchi, con l’odore dei ricchi, ce li saremmo lasciati
alle spalle. E anche l’incontro amichevole Genova-Nizza, e la Corniche
che ce n’era una grande e una piccola, e la notte in un albergo non troppo
caro… tutto ci saremmo lasciati alle spalle.
“Senti” disse la Maria quando si fu fermata
dal ridere, “non val davvero la pena che tu stai qui a tenermi compagnia. Lo so
a cosa pensi. Mi guardi con una faccia quando cammino sul bordo della piscina.
Ma tu sei di Genova e io sono di Voltri. Io vado in una scuola che se tu la
guardi e non sai che è di Voltri dici subito: questa è una scuola di Voltri.
Tutto quello che c’è a Voltri se tu lo guardi e non sai che è di Voltri, dici
subito: questo è di Voltri. Non c’è speranza. Più presto lasci perdere e meglio
è. Fidati”.
Ora la Maria guardava fuori da finestrino e
si mangiucchiava la punta di un dito.
“Cosa hai detto che hai in quel pacchetto?”
dissi indicando la retina.
“Pane e salame” fece la Maria. Lo sapevo che
la risata stava esplodendo di nuovo.
“Lo mangiamo?” feci.
“Okay” fece la Maria, e la sua risata esplose
davvero di nuovo nel pullman come all’interno di un uovo: avrei giurato che
riusciva perfino a far tintinnare i vetri.
Lieviti
“Devi tornare in
classe” gli ho detto. Mi guardava da sotto in su.
Teneva la
sigaretta fra pollice e indice come un vecchio operaio, quelli con le dita
grosse che votavano PCI e ti fissavano negli occhi.
“Devi tornare in
classe” ho ripetuto. “E fumare è proibito” ho detto.
“Andiamo…” ha
detto con un movimento della testa; somigliava a Robert De Niro: “Che ci vado a
fare?” ha detto con una smorfia delle labbra che sembrava sempre di più Robert
De Niro.
Non è che avevo
molti argomenti per rispondere.
“E fumare è
proibito” ho ripetuto. “Sei un ragazzino” ho detto.
“Andiamo proffe…
E’ solo tabacco” ha detto.
Attraverso le
finestre sporche anche il cielo sembrava sporco. La collina di Cesare Pavese
veniva giù a canaloni pieni di verde, col fresco che ci scorreva in mezzo e
l’odore di robinia, e c’erano campi rettangolari curati come una superficie
matematica. Un trattore andava avanti e indietro, piccolo che neppure si
sentiva il rumore, un gingillo.
“Tra poco è
vendemmia” ho detto.
“Mi racconta di
Pavese?” ha detto.
“S’è ucciso” ho
detto. In un albergo di Torino” ho detto. “S’è chiuso in camera e si è sparato”.
“E lei ci va spesso?” ha detto lui. Ti faceva
venire voglia di camminarci insieme e di spiegargli quello che nemmeno tu avevi
capito. Pareva avesse tre o quattro anni di meno di quelli che aveva, e scuoteva
a volte i capelli lunghi sulle spalle strette. Gli occhi ti fissavano più pungenti
di quelli di un grande. Non mi sentivo poi così vecchia da non poterci pensare
a lui, e sì, lo confesso che lo facevo la sera, nel letto, di pensare a lui e
toccarmi fino a non sfinirmi dopo che Carmelo, quel figlio di puttana, mi aveva
lasciato così tanti anni prima.
“Va, dove?” ho detto.
“A Torino” ha
detto, “a vedere dove si è ammazzato Pavese”.
“Se ci passo guardo
in su, ma tu dovresti essere in classe”.
“Andiamo…” ha
ripetuto con quella smorfia. “Mi piacerebbe scrivere” ha detto.
Stavo
aspettando. Aveva inclinato il capo e si faceva scudo con i capelli. Il suo
odore lo sentivo fin di lì: tutti i ragazzi di quell’età hanno un odore; le
aule ne sono piene. E non potevo fare a meno di guardare senza farmi accorgere il
rigonfio dei jeans che aveva in mezzo alle gambe, più grosso di quel che ti
saresti aspettata da uno di quell’età. Inadeguata: ecco come mi sentivo:
inadeguata. E’ tutta la vita che mi sento inadeguata. E non è solo per via
della faccenda di Carmelo.
“Mi piacerebbe
raccontare della vendemmia, del vino che fermenta ma che non senti più il
profumo da quando hanno preso i tini di acciaio” ha detto. “E poi ho letto che nel
vino ci mettono i lieviti, che così viene sempre uguale un anno sì e un anno
anche” ha detto. “Mi piacerebbe raccontarlo e dire che è una roba da pazzi” ha
detto.
Teneva il viso
giù e i capelli sulla faccia come se fosse restio a dirmele, quelle cose. Buttò
la cicca e la schiacciò con la punta delle Adidas, tirò su col naso e si
stropicciò il pisello con due dita, sotto i calzoni.
“Non è che ci si
campa con la letteratura” ho detto. “Sei ancora un ragazzino, ma è bene che ci
fai mente locale” ho detto.
Ha fatto
spallucce e si è stropicciato ancora il pisello. “Non mi va di farci mente
locale. Non so se me ne frega” ha detto.
“Frega di che?” ho chiesto.
“Di farmi la
macchina e avere una moglie che vive come vive mia madre e andare in ufficio
come ci va mio padre che aspettano il sabato sera per farsi una scopata che
credono che io non li sento perché è tardi e io dovrei dormire. Ci mettono
cinque minuti e è finita lì” ha detto.
Vancouver! Me la
ricordo Vancouver. Con i grattacieli sul Pacifico, la baia e le barche da
diporto e noi studenti e studentesse sulle navi da carico che sapevano di pesce.
E i ragazzi di Vancouver… Dio i ragazzi di Vancouver…
“Non è che
abbiamo molta scelta” ho mormorato.
“E poi d’estate
andare in pensione a Rimini” ha detto, “con le bruciature delle cicche sul
comodino e il cesso che ci viene su l’odore di fogna e il linoleum per terra e
quelli un po’ più grandi sulla spiaggia, ragazzi e ragazze che si agitano e
ridono che sembra che si divertano davvero”. Ha detto: “Per questo mi piace
quella cosa di Pavese, perché non ci andava, a Rimini, lui”.
“Pavese andava a
Varigotti” gli ho detto. “Non è che c’è ‘sta gran differenza” ho detto.
Mi guardava
dritto in faccia adesso. Non si nascondeva più sotto i capelli. Pareva non
crederci.
“Hai una
sigaretta?” gli ho detto.
Michael Bergt: Leda e il cigno - scaricato da Google images |
[1] Tratto in parte da: Cuomo
E., Di Lorenzo R., La verità sul trading
e sugli investimenti, 2014, da pubblicare.
[2] Una serie delle sue
avventure e delle sue ricette di trading è pubblicata da Il Sole 24 ORE in una
collana dal titolo La Borsa Spiegata a
Tutti.
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